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Diversamente C.H.E.F.: coscette di quaglia all’uva selvatica

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Lo chef Giorgio Rosato propone coscette di quaglia all’uva selvatica

Se provassimo ad indagare sull’origine delle grandi uve, quelle per intenderci dalle quali deriva la maggior parte dei vini pregiati che abbiniamo ai piatti gourmet proposti nella nostra rubrica, la ricerca potrebbe apparire fin troppo semplice. E si baserebbe su un elenco delle principali uve utilizzate nella produzione dei vini più blasonati. Dalle uve Nebbiolo per il Barolo alle uve Sangiovese per il Brunello di Montalcino, o alle uve passite dei vitigni della Valpolicella per l’Amarone, tanto per citare alcune delle varietà più note. Ma in realtà tutti questi cultivar sparsi nel mondo, come molti altri, tra cui i famosi sette vitigni (Chardonnay compreso) dai quali si produce lo Champagne, non esistono in natura poiché si tratta sempre di uve derivanti dalla cosiddetta vite coltivata. In altre parole sono uve che rappresentano la sintesi di un lungo lavoro di selezione (e di complessi interventi di ibridazioni) sviluppato nel corso di numerosi secoli e il cui punto di partenza è sempre stato uno solo: l’uva selvatica.

La vite selvatica è una pianta che cresce spontanea e le cui origini risalgono addirittura al periodo dell’ultima glaciazione nei territori euroasiatici dell’area mediterranea. Per la sua particolare distribuzione sul territorio la vite selvatica viene definita come una pianta a tendenza ruderale la cui crescita, pur tendendo a privilegiare luoghi incolti (strade, muri, ruderi, etc), riesce ad adattarsi anche in ambienti boschivi, lungo le siepi o in prossimità di corsi d’acqua. Dal punto di vista enologico l’uva selvatica non è adatta alla vinificazione a causa delle caratteristiche degli acini (molto aspri e a scarso contenuto di zuccheri), ed è per questo che nel corso della lunga storia della vinificazione si è ricorso alle selezioni e alle ibridazioni.

L’idea di questa ricetta è nata dalla presenza lungo una siepe di lauri del nostro dehor di numerose piante di vite selvatica che, puntualmente ogni anno, danno origine ad una ricca produzione di grappoli di uva selvatica. Grappoli che, se raccolti alla fine del ciclo di maturazione, risultano decisamente meno aspri e possono essere consumati sia come frutta che nella preparazione di piatti salati. E tra gli abbinamenti più comuni in questo ambito, uno dei più noti (anche a nella classica cucina casalinga) è rappresentato dalle quaglie all’uva, presente in diverse cucine regionali con un’ampia gamma di variati appetitose e di facile realizzazione. Del resto le quaglie vantano una tradizione molto antica nella storia dell’alimentazione, come si riscontra nelle opere dello storico Erodoto, che annota l’utilizzo di questi gallinacei già a partire dal 3000 a.C., quando gli antichi Egizi (dopo averle essiccate e
salate) le utilizzavano per nutrire gli schiavi impegnati nella costruzione delle piramidi.

Diversamente dalle altre carni di selvaggina, quella della quaglia è particolarmente digeribile e ricca di proteine, ma al tempo stesso anche a basso contenuto di colesterolo per cui si rivela adatta ad ogni tipo di alimentazione. Grazie anche al largo consumo delle uova presente ormai in tutti i supermercati. E, particolare non trascurabile, le quaglie sembrano immuni (almeno finora) dagli strali degli animalisti più irriducibili, o dalle fosche previsioni distopiche dei paladini dell’ambiente, poiché non rientrano nel panorama delle specie a rischio di estinzione. Grazie infatti alla loro elevata prolificità si riproducono velocemente sia in ambiente selvatico che in cattività, settore quest’ultimo che registra ogni anno negli allevamenti sparsi in tutto il mondo una produzione di circa due miliardi di esemplari. Oltre all’uva abbiamo inserito un altro frutto noto per la sua dolcezza abbinata ad una consistenza soda e carnosa: le giuggiole. Un frutto che, grazie alle sue peculiarità, ha dato origine all’espressione figurata andare in brodo di giuggiole (presente già nella prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1612) con la quale viene indicato uno stato d’animo di grande benessere ed estrema contentezza. Diffusissime nell’antica Cina, le giuggiole vennero introdotte in Europa all’epoca dell’Impero Romano e presentano una singolare caratteristica relativa al loro sapore, sempre gradevole e buonissimo: se raccolte ancora verdi (quando assomigliano a delle olive) hanno un gusto assai simile alle mele mentre a maturazione completata, quando la colorazione assume sfumature scarlatte, diventano più dolci e ricordano il gusto dei datteri, tanto da farli conoscere anche come “datteri cinesi”. Il tutto condito con la dukkah, una delle miscele di spezie più aromatiche di origine egiziana.

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